NIENT’ALTRO CHE AMARE: recensione di Bejeeta su ANOBII

Poiché Anobii pare stia chiudendo i battenti, mi ricopio le recensioni al mio libro, Nient’altro che amare, per non perderle. E soprattutto per ricordarle, perché recensioni come queste, davvero, non si possono dimenticare.

Una fiaba grigia con sprazzi di rosa

Il primo errore in cui è possibile incappare è scambiare Nient’altro che amare per un semplice romanzetto rosa, complice anche una copertina tanto bella quanto fuorviante per le scelte cromatiche dell’edizione. Niente di più sbagliato. Nient’altro che amare è un’opera emotiva e potente, la cui struttura esula dalla narrativa convenzionale per diversi elementi.
Per cominciare direi la costruzione stessa della storia, Maria non narra in prima persona ma RICORDA, questa differenza è tanto sottile quanto fondamentale (e motivo per me di un paio di smarrimenti), perché sebbene il racconto sia lineare da un punto di vista di scansione temporale, il personaggio tende a saltare da un ricordo all’altro come farebbe una persona qualsiasi, soffermandosi su dettagli puramente personali (la descrizione degli uomini che ama, dei figli, delle violenze), accelerando sulla progressione temporale di certi eventi (capita che anche una decina di anni scorra da una riga all’altra). Questo accade, a mio avviso, proprio per la necessità della protagonista, più che dell’autrice, di arrivare al sodo, a questioni più importanti per lei, insomma. Un espediente che aiuta, per molti versi, a non annoiare il lettore attendendo che accada qualcosa. In buona sostanza, il racconto è fitto di situazioni e non si ha mai la sensazione che il brodo sia allungato, tutt’altro.
Altro aspetto interessante è l’assenza di una dichiarata collocazione spazio-temporale. Sappiamo che la storia è ambientata in un paese della Calabria (mai comunque nominato) grazie al dialetto che non lascia adito a dubbi. Non ci viene detto l’anno o il periodo storico, sebbene vengano lasciati indizi atti a presupporre che la storia cominci nella metà degli anni cinquanta, ma è solo una mia supposizione.
Questo non-luogo in un non-tempo genera un’atmosfera quasi sognante, per quanto cruda, avvolgendo la storia di sensazioni eteree, come una fiaba, dove però la principessa è brutta e il principe non ne vuole sapere di farsi vedere. Il fatto che Maria stessa sogni su libri per bambini, costellati di cavalieri e dame in pericolo, non fa che accentuare questa mia percezione.
Il terzo elemento che mi ha colpito è il linguaggio. La Di Cesare è indubbiamente dotata di una componente tecnica di alto livello, che si incarna nell’uso vincente della metafora e della precisione chirurgica con cui questa viene inserita nel contesto. Possiamo assistere a una scena di brutale violenza dove l’accostamento di metafore alla descrizione dell’atto da’ un valore aggiunto alla sequenza, non edulcorandola, bensì arricchendola. Le violenze, non solo sessuali, vengono descritte in tutta la loro crudezza, ma senza cercare l’effetto truculento; il risultato è che ogni sequenza rende perfettamente l’idea, coinvolge emotivamente senza disturbare ed erige un canale empatico tra il lettore e Maria.
Empatia, appunto. Le mie emozioni nei confronti della zannuta sono quasi identiche a quelle che provai per Carrie di Stephen King: difficile simpatizzare per una donna che si arrende, da’ quasi sui nervi, ma è spontaneo empatizzare, percepire il suo dolore, privandoci del superfluo privilegio del giudizio. Ma è davvero necessario giudicare? Le violenze e le vessazioni di un paesucolo, per chi le ha vissute (anche indirettamente, come me) possono segnare e distruggere una vita.
Vi è quindi un aspetto di denuncia sociale? Non credo, ritengo più plausibile che sia un leit motiv per approfondire le emozioni, più che la psiche, di un’emarginata, la causa scatenante e il contesto che generano non un mostro ma un angelo coi denti sporgenti, pur senza mai chiedere al lettore di affezionarcisi.
A fronte di questi elementi il risultato non può che essere forte, emotivamente potente. Nei miei due giorni di intensa e attenta lettura ho dovuto più volte riporre il testo per far riposare non tanto gli occhi quanto il mio animo, sbattuto violentemente da una parte all’altra della stanza. Un uomo etero, seppur abbastanza sentimentale, come me, costretto a fermarsi per le troppe emozioni è un buon risultato, ma fino a che punto è voluto? La mia percezione è che l’autrice si sia affezionata così tanto al suo personaggio da innestargli tutti i suoi sentimenti e paure, tanto da renderlo non tanto vivo perché perfettamente e matematicamente definito, ma vero, reale, plausibile. Per questo vicino alla nostra possibilità, appunto, di empatizzare con lei.
Non nascondo che la lettura mi ha provato e sfiancato, seppur in senso buono: tante emozioni possono, talvolta, essere anche troppe, insopportabili. Eppure è anche per questo che esistono i libri, per emozionare, e qualcuno potrebbe addirittura goderne, se affronta il testo libero da pregiudizi, lasciandosi coinvolgere dallo stile in primis, che aiuta molto, e poi dal suo incedere rapido, con le pause necessarie a prendere fiato.
Dicevo che in un paio di frangenti mi sono smarrito, questo credo sia dovuto all’impostazione stessa del racconto che difficilmente torna sui propri passi affidandosi alla memoria del lettore. Per fare un esempio, a un certo punto ho perso il conto dei figli, me ne sono trovato uno in più e ho dovuto tornare indietro per capire dove l’avevo lasciato. Quisquilie, forse una mia distrazione dovuta dal desiderio di sapere come andava a finire un certo evento.

Il libro mi è piaciuto molto, mi ha ferito e rattristato, mi ha fatto arrabbiare e messo a disagio in più occasioni. Emozione. Empatia. Tecnica. Tre cose che mi hanno lasciato bene.
Una fiaba grigia con sprazzi di rosa.

 Bejeeta detto il Apr 24, 2013

Che dire? Grazie, Bejeeta, chiunque tu sia.

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