Uno spaccato sociale denso e attuale
Bello, denso, avvincente. Di un antico verismo, benchè sempre attuale. Sullo sfondo di una città di provincia del sud, si muove e pulsa l’anima di una sottoproletaria, ‘A Zannuta, quasi fosse un personaggio Pasoliniano (mi viene in mente “Mamma Roma”), a cui la miseria, economica e culturale, le si accanisce, marchiandola a fuoco già dall’adolescenza. Un madre che le ha trovato il soprannome, “’A Zannuta”, un padre che ha ceduto all’uomo ricco da cui ‘a Zannuta, con la violenza, è stata messa in cinta, il frutto di quel rapporto bestiale, poi la cacciata della giovane di casa, da parte dei genitori, sono solo gli ingredienti iniziali. Il seguito racconta di una donna forte, violata nel profondo, bestialmente o con passione, che ha sempre accettato, come propri figli, le creature frutto di violenza o di passione, senza mai una padre, ma solo lei a provvedervi. Ma racconta anche di un modo profondo di essere madre, senza fronzoli, limitato allo stretto necessario, assicurando cibo e abbigliamento ai propri figli, da considerare, per le sue misere possibilità economiche, impresa stoica. Si spacca la schiena, rinuncia lei a qualche misero vestitino pur di assicurare a quelle creature un’istruzione a lei negata, ma continua a subire la violenza della provincia per la sua “voglia insana” di amare, di possedere ed essere posseduta, di fare “quella cosa lì”, forse per sentir meno la solitudine dello spirito, oltre che del corpo. Qualche creatura le viene strappata, qualche altra le muore, violentemente, e qualche coppia agiata e sterile tenta in tutti i modi d’insidiarne la prole, di strapparle l’unica ragione della sua vita : “’i criaturi”. Si ribella, con orgoglio e dignità, e in un caso cede, sotto la pressione di un uomo che l’ha messa in cinta e che, dopo anni, chiede a lei il frutto del loro rapporto. Tutto è estremo in questo libro: vita o morte, mortificazione e dignità, lotta o resa, ma alla fine “’a cunigghia” ( come viene chiamata in paese “’a Zannuta”, per la sua propensione a figliare ), cede all’altruismo, anche su sollecitazione del figlio maggiore e cede una creatura a quell’uomo, padre naturale, che la reclama implorandola. “Per lui, per il suo futuro, che futuro può avere qua??”. Cede per amore, con lo stesso amore con cui li ha cresciuti, perché sa che in quel paese, saranno sempre i “figghi de ‘a cunigghia”; solo fuori potranno avere qualche speranza. La narrazione è intrisa di significati: dalla provincia del profondo sud che emargina i reietti, confinandoli in una solitudine disperata, al senso profondo del ruolo materno, che porta ‘a zannuta ad accettare tutti i figli, frutto di violenza o di passione, e a crescerli, all’accoglienza e solidarietà che ella riserva a chiunque sia in difficoltà, bisognoso di amore e di un ristoro dell’anima, oltre che del corpo. Fino a quel sesso libero e privo di preconcetti, dove il rapporto e l’amplesso è la naturale conseguenza di un bisogno di dare e ricevere, che scatena purtroppo, nel paese, le ire di coloro a cui lei appare sempre più una “rovinafamiglie”. Ma saprà vincere tutte le avversità, sopravvivere a tutti e tutte coloro che l’hanno odiata o disprezzata, coronando la sua esistenza con dignità e assicurando ai figli un futuro decoroso. La narrazione termina là dove è cominciata, sul molo, con ‘a zannuta immersa nei ricordi di una vita burrascosa e difficile, rimembrando il suo passato e la sua forza, a cui ha dovuto ricorrere fin da piccola, aiutata da ciò che il titolo del libro ben sintetizza: “nient’altro che amare”.
Gpellegrino30 detto il Feb 1, 2013
NIENT’ALTRO CHE AMARE: recensione di G. Pellegrino su ANOBII
