SCRIVERE O NON SCRIVERE. E’ DAVVERO UN PROBLEMA?

IMG_0173Ho sempre scritto, in vita mia. Anche quando non sapevo tenere in mano una penna, anche quando non sapevo decifrare le lettere scritte sui giornali e tradurle in parole vere e proprie. Ho scoperto da pochissimo che “scrivere” è qualcosa che ha a che fare con l’inventare, l’immaginare, il creare e non è necessariamente un’attività che si fa solo ed esclusivamente con una penna in mano, un foglio di carta, una tastiera e un foglio digitale. No, scrivere si fa con la mente. Si visualizza, si inventa, si immagina, si crea. Si compongono e scompongono storie e personaggi. Si racconta una storia principalmente a se stessi. Poi, nel caso, la si traduce su foglio e la si fa leggere agli altri.

Ho sempre scritto, dicevo. Sì. Avrò avuto 4 o 5 anni ed ero una bambina abbastanza solitaria. Non asociale, mi piaceva stare in compagnia degli altri bambini e delle bambine anche se, lo ammetto, facevo fatica a integrarmi nei loro giochi. Mi piacevano i giochi dei maschi (guardie e ladri – indiani e cowboy, principalmente, cerbottana, gare di bicicletta, esplorazioni) e molto poco quelli delle femminucce (bambole – non era ancora stata inventata la barbie, per la quale avrei pianto lungamente il fatto di esser già troppo grande per giocarci – cucina e brava massaia) dei quali prediligevo “Arancio, limone, mandarino, pera” il gioco del salto della corda e le bambole di carta, disegnate da noi. Facevo fatica a trascorrere i pomeriggi a fingere di bere il thé con le signore, a scimmiottare le mamme delle amiche inanellando gossip e frivolezze. Io sognavo a occhi aperti le avventure di Sandokan, Yanez De Gomera (il mio preferito tra i due), e Tremal Naik, divoravo i libri di Jules Verne e mi rifiutavo categoricamente di leggere Piccole Donne. Ho subito anche delle punizioni a scuola per queste “mie letture troppo mascoline” e mi son sentita spesso denominare “maschiaccia” per esser troppo vivace e irruente nei miei giochi e frequentazioni. Per questo mi “isolavo” e… inventavo. Un mondo mio, un universo fatto di storie e avventure. E da poco ho capito che già quello era “scrivere”. Mi piacevano le favole. Una su tutte, quella che mio nonno mi raccontò solo due volte: la storia di Pieròn Fumon. Era una storia bellissima, dove Pieròn Fumon riusciva con l’astuzia a catturare la morte in un sacco e a vincerla fino al giorno in cui non decideva di essere stanco e liberarla per esser da lei preso e portato via. L’adoravo. E non ho mai capito perché, mio nonno me l’abbia raccontata così poche volte (e dietro numerose insistenze!). Aveva quasi un timore reverenziale verso quella storia, quasi la ritenesse plausibile, vera. Moltissimi anni dopo, rilessi quella stessa storia un po’ cambiata in Harry Potter e i Doni della Morte. La storia dei tre Deathly Hollows è impressionantemente simile a quella che mi raccontava mio nonno. A parte questa, i miei nonni si dicevano incapaci di raccontarmi storie perché non se ne ricordavano altre. E fu allora che decisi di raccontarmi io le storie di cui avevo bisogno. E’ stato allora che è tutto cominciato. Credo. E da allora non è mai finita.

Ho sempre scritto. Anche quando per anni non ho letto una riga che non fosse una lettera commerciale, un contratto o una traduzione da fare. Soprattutto quando dovevo esibirmi nel redigere  lunghe relazioni e verbali di riunioni importantissime: ponevo particolare attenzione alla forma e allo stile affinché fosse inequivocabilmente comprensibile il significato di taluni episodi riportati, concetti espressi, decisioni prese. E con maniacale ricerca a espressioni severe ma gentili, ferme ma diplomatiche nel richiedere, sollecitare, confutare, rifiutare.

Ho sempre scritto. Non ne ho mai potuto fare a meno. Quando ero in ansia o triste o presa dallo sconforto, aprivo un quaderno e miIMG_0659 ci immergevo dentro. Ho tenuto un diario dall’età dei 12 anni fino a quasi 20. Poi ho deciso che il diario non era una cosa adulta e ho lasciato stare, ma la tentazione di confidarmi con l’entità astratta è proseguita negli anni, e allora erano lettere che non ho mai spedito (e che conservo ancora gelosamente) o vere e proprie pagine di confessioni personali che in qualche modo placavano il mio soffrire interiore. Scrivere è sempre stato per me un balsamo. Una cura. Una medicina. Fosse una storia inventata o uno sfogo personale, quel vergare sulla carta parole e ghirigori era come una carezza, un solletico all’anima, uno scrostare via dalle pareti del mio io la ruggine che si era venuta a formare.

Ho sempre scritto e ho sempre detto: smetto di scrivere. Lo dico tanto spesso che ormai ho perso il conto delle volte che l’ho fatto. Ed è un ripetere così monotono che ormai mi “faccio noia da sola”. Lo dico perché in quel momento lo penso. Lo voglio. Scrivere sta diventando sempre di più un’ossessione morbosa. Scrivo ovunque e in qualunque momento. Scrivo con la mente, scrivo con le mani e la penna, sul computer, e mentre dormo. In questi giorni in cui sono stata male, ho scritto più che in altri momenti. Ho quasi concluso mentalmente due romanzi. Tutti ben catalogati, organizzati, le caratterizzazioni dei personaggi già stabilite, la trama assestata, le ricerche storiche da effettuare già elencate. Tutto fatto. Nella mia testa fluttuante dal corpo dolorante. La carne tremava dalla febbre, la mente era altrove, negli anni 40, sotto le bombe di una guerra appena iniziata, in una Bologna che non ho mai visto, a vivere avventure e amori proibiti.

Ho sempre scritto e sempre scriverò. Non ne posso più fare a meno. Di una cosa però non sono più così tanto sicura: se avrò ancora voglia di pubblicare. Ma questa è un’altra storia.

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