Maugham e la copia dal vero su carta e penna…

00465b94f6d07f3963d5fd7c14bc21ff“Stavo viaggiando da Honolulu a Pago Pago, e nella speranza di poterle prima o poi usare avevo buttato giù alcune note sui compagni di traversata che mi erano parsi più interessanti. Questo è quanto avevo scritto di Miss Thompson:

“Rotonda, carina, volgarotta, ventisette anni al massimo. Vestito bianco e cappello a larghe tese in tinta, stivaletti anch’essi bianchi, calze di cotone alle caviglie”. Subito prima che salpassimo c’era stata una retata nel quartiere a luci rosse di Honolulu, e a bordo correva voce che la signorina si fosse imbarcata per sfuggire all’arresto.” […]

“Il missionario W. Alto, magro, gambe lunghe e come disarticolate, guance incavate, zigomi alti. Begli occhi grandi, scuri, fondi, labbra piene e sensuali, capelli piuttosto lunghi. Aria cadaverica, ma con un evidente fuoco che cova sotto le ceneri. Grandi mani, belle dita lunghe e affusolate. Pelle candida, ma cotta dal sole dei tropici. Mrs W., sua moglie. Donnino dall’acconciatura assai elaborata, probabilmente del New England; occhi azzurri non particolarmente belli dietro il pince-nez, faccia di pecora. Però non sembra stupida. Perennemente sul chi vive, questo sì. Si muove a piccoli scatti rapidi, come un uccellino. Caratteristica principale, una voce acuta, metallica, del tutto priva di inflessioni; colpisce l’orecchio con un’aspra monotonia, e irrita i nervi come il fragore incessante di un martello pneumatico. Veste di nero, e porta al collo una catena d’oro da cui pende una piccola croce. Dice che W. è stato in missione alle isole Gilberts, dove la sua diocesi consisteva in alcune isole molto distanti l’una dall’altra, fra le quali si spostava in canoa. [—]

Ed ecco la prima traccia del racconto:

“Una prostituta, in fuga da Honolulu dopo una retata, sbarca a Pago Pago. Dove scendono anche un missionario e sua moglie. Oltre al narratore. A causa di un’epidemia di morbillo scoppiata all’improvviso, i tre sono costretti a rimanere sull’isola. Il missionario, appena scopre la professione della ragazza, non le dà tregua. La perseguita senza pietà, costringendola prima a vergognarsi, poi a pentirsi. Quindi chiede al governatore di rispedirla a Honolulu. Una mattina lo trovano con la gola tagliata. Suicidio. La ragazza è di nuovo radiosa: sembra rinata. Guarda gli uomini con disprezzo, e commenta fra sé: tutti maiali”.

[tratto da Come scrivo i racconti di W. Somerset Maugham]

Il noto scrittore prendeva appunti sui compagni di viaggio e poi, successivamente utilizzava questi “schizzi su carta e di penna” per caratterizzare i suoi personaggi.

Non scrivo di “cose autobiografiche” anche se ovviamente, in maniera molto elaborata, dentro ogni personaggio e ogni storia che1f2dbedd9ad96f44a3a3a69ea14e1a6d racconto c’è qualcosa, più o meno in abbondanza, di mio e di vissuto. Ma poiché scrivere è soprattutto osservare la realtà e riportarla su carta, la domanda che mi pongo è: quanto è lecito ispirarsi a qualcuno di veramente esistito nella nostra vita, e soprattutto, che fare se qualcuno di conosciuto si riconosce nei tuoi scritti, nelle storie a cui ti sei ispirato?

Sto buttando giù delle note, piccoli appunti, la traccia di qualcosa che non so ancora se prenderà forma e diventerà un romanzo. E queste note, questi appunti sono praticamente il vissuto di persone a me molto vicine. Non amo scrivere di cose “vere”. Ma queste che sto buttando giù meriterebbero di esser raccontate. Anche se, nella mia mente, ho già una visione su come distorcerne alcune parti per migliorarne l’effetto narrativo. E se un domani si riconoscessero nei fatti, nelle descrizioni e si offendessero per la deriva narrativa che ho fatto prendere al personaggio e alla storia? Sarei in grado di affrontarne le plausibili, probabili, ire?

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