Diciotto esempi perfetti per iniziare un libro 1 marzo 2013 | di Jim Hawkins
«Fate attenzione a quello che ora vi racconto.» Bohumil Hrabal, Ho servito il re d’Inghilterra, 1971
Mi sembra che gli editor che mi hanno preceduto lo abbiano già detto varie volte, ma ci tengo a ripeterlo: al momento della lettura e della selezione di un manoscritto, per un editor l’incipit non è fondamentale perché può sempre essere riscritto o totalmente cambiato dall’autore prima della pubblicazione. Fondamentali in un manoscritto, almeno per me, sono invece uno stile personale ed efficace e una storia originale e coinvolgente. Stile e storia, durante l’editing, possono essere certamente migliorati, ma non possono in alcun modo essere ricreati dal nulla: o ci sono o non ci sono. Un editor che interrompesse la sua lettura dopo un incipit insoddisfacente correrebbe il rischio di farsi sfuggire libri bellissimi. E la storia della letteratura mondiale, piena di capolavori con incipit davvero poco significativi, se non insignificanti, è lì a ricordarlo. Detto questo, ritengo che un buon incipit possa invece aiutare un libro a farsi strada nell’affollatissima giungla delle librerie:sono molti i lettori che, incuriositi da un titolo o da una copertina, aprono il libro e ne leggono le prime righe per decidere se è proprio quello il libro di cui hanno voglia e bisogno. Il primo compito di un incipit sarà quindi quello di sedurre e incuriosire il lettore, dargli una promessa di felicità nella consapevolezza che quella promessa andrà però mantenuta. Si tratta infatti di un vero e proprio impegno che lo scrittore prende con il suo lettore: “io ti offro questi ingredienti, fidati di me, leggimi e non resterai deluso”. E poiché non c’è nulla di peggio di una promessa non mantenuta, per lo scrittore sarebbe un vero boomerang apparecchiare un incipit pirotecnico che non abbia niente a che fare con il resto del libro: ne otterrebbe solo un lettore deluso e rancoroso. Ricapitolando: seduzione, patto con il lettore e niente effetti speciali che nascondano il nulla. L’autore deve essere come l’«oste onesto e benintenzionato» di cui si parla nell’incipit di un capolavoro inglese del Settecento: <<<<continua>>>>>
Vorrei incontrarti fra cent’anni… tu pensa al mondo fra cent’anni ritroverò i tuoi occhi neri… tra milioni di occhi neri… saran belli più di ieri… Aspetto in macchina mio figlio. Va a lezione di chitarra, si è fissato che vuole diventare un grande musicista rock. O un cantante bravo come Nek, che per lui è un idolo. Sorrido pensando a come i gusti cambino, con il passar del tempo. Soprattutto quelli musicali. Penso a cosa direbbe mio figlio della canzone di Ron e Tosca, che stanno suonando alla radio proprio adesso, per esempio (Ma mamma! È una lagna pazzesca!): Vorrei incontrarti tra cent’anni. Eh, già… tu pensa al mondo tra cent’anni, come sarebbe. O come è stato.
[Vorrei incontrarti fra cent’anni – Il Racconto nel Cassetto, Menzione di merito 2009 – Romanzo breve ]
Cala la sera. Il faro, dall’altra parte della baia è già acceso e si avvita di luce, come sempre a quest’ora, lasciando che la sua scia luminosa inondi a intermittenza l’acqua calma al largo. Io me ne sto qui, alla fine del molo del porto vecchio, appoggiata a una ringhiera di ferro arrugginito logorata dal tempo e dalla salsedine. Guardo lontano, senza sapere bene né cosa né dove. Mi piace spingermi oltre il limite tra il mare e il cielo e lo faccio spesso, così, solo perché mi va. Non c’è una ragione particolare nel restare sola, al buio che ormai si fa più profondo, in compagnia del picchiettare lamentoso delle sartie e le sirene delle ambulanze in lontananza. Forse è per il fatto che guardare senza nessuna meta, permette ai ricordi di vincere la loro timidezza e uscire indisciplinati dalla mente per mostrarsi senza più pudore ai miei occhi, e a me di richiamarli dal loro lontano vagare. Sono a’ Zannuta, qui in paese mi chiamavano così, ho 65 anni e dall’età di quindici non verso una lacrima. Mai più pianto, mai.
[Nient’altro che amare – Edizioni Cento Autori – Giugno 2012 – Romanzo]
Quella sera pioveva. Una pioggia sottile e farinosa, di quelle che non bagnano subito ma penetrano lentamente nelle fibre dei cappotti e si insinuano silenziosa nelle ossa. Pioveva e Marco non sapeva cosa fare, dove andare. Non aveva voglia di trascorrere la sua libera uscita come le altre volte, all’osteria fumosa all’angolo dietro la caserma. Aveva già vissuto sere come questa, seduto a un tavolino, solo, a bere fino a perdere la cognizione del tempo. Di seguire i suoi colleghi, vigili del fuoco che alla fine del turno, nemmeno a parlarne. Si riunivano a parlare di scemenze e a fare gli stupidi dietro le ragazze che ancora si attardavano frettolose per la strada. Non faceva per lui. Perché sentiva di nuovo il buco nero – così lui chiamava quel senso di vuoto che sentiva risucchiargli ogni sensazione, ogni voglia di vita e passione – aggredirlo e annientarlo. Da qualche giorno si era ripresentato più forte, più prepotente. Il suo solito vuoto dentro. Ci provava a riempirlo, disperatamente; un’angosciosa sensazione di avere un foro dentro l’anima. E quella il tempo non dava certo una mano. Sentiva l’umido penetrargli in profondità mentre l’odore acre di naftalina e sudore che traspirava dalla stoffa ruvida della divisa, saliva nelle narici e finiva per bruciargli in gola. No, niente alcool. Non stasera, pensò.
[Sirena all’orizzonte – Romanzo – in fase di editing]
— Papà… papàaaaaaa!
— Matilde! Quante volte ti ho detto di non distrarlo mentre guida!
— Ma mamma, quanto ci vuole ancora?
— Stai buona, che manca poco… E cerca di stare un po’ zitta, per favore. Non hai fatto che parlare tutto il viaggio. Fa’ un po’ come tua sorella, che non ha detto una parola in otto ore!
Ero arrabbiata. Tanto. Per questo non avevo aperto bocca da quando eravamo partiti, quella mattina. Non potevo farci niente. Mi avevano tradito, fregato, distrutto tutti i miei i sogni. Ecco cosa avevano fatto. E come l’avevano organizzata bene, la trappola, i miei genitori. Con la complicità della mia cara sorellina! Odiavo avere sedici anni!
[Diritto al cuore – finito di scrivere gennaio 2012 – Romanzo]
Primi di settembre, tardo pomeriggio
Che figata! Siamo fermi in colonna! Dai, dai… A occhi stretti Vittoria si strinse ancor di più al suo Pierpaolo mentre il vespino che li portava zigzagando tra le auto in fila, scoppiettava affaticato. Non aveva fretta di arrivare in piazza, incontrarsi con gli altri e fare piani per la serata. Non adesso, che poteva godere di qualche minuto di solitudine con il suo amore. Ti-prego-ti-prego-ti-prego… fa’ che restiamo così, fa’ che restiamo così! Settembre era arrivato, carico di nuvoloni grigi e di rimpianti. L’indomani mattina, Pierpaolo avrebbe preso la corriera delle sette e sarebbe tornato a Torino, nella sua città. Lontano “anni luce” per un anno intero, almeno. L’estate era giunta al termine. E già Vittoria ne sentiva la mancanza, quasi l’autunno fosse piovuto nel suo cuore con abbondante anticipo. Resta in colonna Pie’, non sorpassare le macchine, ti prego ti prego ti prego!
— Ma che caz… — una brusca frenata a un tentativo di sorpasso non andato a buon fine la fece sussultare.
[Cose della vita – Romanzo in progress]
Aveva iniziato a piovere. Bel tempo per partire! Pensò Stefania, guardando fuori dal finestrino del taxi che la stava portando via. Stava abbandonando il suo paese, i suoi amici, lasciava dietro le sue spalle tutta una vita e non le importava nulla. Era stanca. Aveva solo voglia di esser già a migliaia di chilometri da quella realtà. Davide dove sarà ora? Si diede della stupida. Non doveva più pensarci. Ricordare il loro ultimo colloquio, così glaciale, le faceva male. Oh, se faceva male! Eppure aveva bisogno di ripercorrere ogni gesto, ogni momento vissuto fino ad allora, per convincersi che quella era la decisione più giusta che avesse mai potuto prendere. Andare via. Al resto avrebbe pensato poi.
— Quando piove sembra che tutti smettano di saper guidare! — esclamò il tassista sorridendole attraverso lo specchietto retrovisore — guardi che traffico, mi sa che per l’aeroporto ci vorrà ben più di una mezzoretta!
— Non si preoccupi, tanto sono in anticipo abbondante. Il mio volo non parte che tra tre ore
Si abbandonò sul sedile, guardando fuori attraverso le gocce di pioggia.
[Duel – finito di scrivere aprile 2008]
Era l’alba a Edogan. La luce soffusa delle akalux si affievolì per un istante lasciando spazio a un momento di oscurità totale. Con grazia lieve, i pecten iniziarono dunque a chiudersi, proteggendo il loro prezioso contenuto. Lenta e inesorabile, quasi una spada che trafigge una superficie spessa e impenetrabile, la luce si insinuò nel liquido vitale illuminandolo. Fu dunque l’accendersi del giorno in un rituale antico, da secoli costante. Così avveniva il passaggio dalla notte al giorno nell’Aquanive, ancora avvolto nel silenzioso tepore di un placido sonno. Un lamento lugubre, monotono si propagò dapprima lento e discreto, poi inesorabile diventando in breve ossessivo. La nenia funebre dei Re. Qualcuno a Palazzo aveva raggiunto Arka-dea, Signora di Thmor, nella Culla del Tempo. Tutto parve arrestarsi in quel momento e l’innaturale immobilità rese ancor più inquietante la domanda che doveva serpeggiare nelle menti di tutti, ormai svegli: “Chi?”
Un sibilo, acuto e ossessivo, squarciò il liquido vitale. Il pianto di un neonato. Non un neonato normale, non un pianto qualunque. Era nato il figlio del Re. L’Erede al trono di Edogan dell’Aquanive. Ma non un pianto di gioia e di voglia di farsi strada nelle asperità dell’esistenza. Un grido di dolore e di morte, innaturale, insopportabile per udito alcuno. Non si spense come ogni pianto di cucciolo che nasce e vive, ma continuò incessante penetrando intimamente nel più profondo dell’essere in ogni abitante. L’Erede era nato e annunciava al mondo il suo dolore per aver perso sua madre nascendo.
[Le Cronache di Aquanive Libro I – Trilogia, in progress]
— Sono Cimarosa, sono atteso da Padre Alfonso…
Era in ritardo. Ancora una volta. Non era sempre stato così, la sua puntualità era di solito proverbiale. Chiunque gli desse appuntamento sapeva di poter contare sulla sua presenza con abbondante anticipo. Ma ultimamente sembrava che tutto avesse preso un’accelerata improvvisa, e non riusciva più a controllare il ritmo della propria vita, cosa che un tempo aveva gestito alla perfezione. Una scusa lo salvava. Un ruolo che la società aveva imposto a quelli come lui e che era tenuto a rispettare: “genio e sregolatezza”. Il suo mestiere infatti era il produrre arte. Era un pittore, Orlando. Famoso abbastanza da non curarsene affatto. Quello che gli importava erano le emozioni che riceveva dal dipingere e l’imprevisto che un’emozione procurava. Ma da tempo ormai, era la vita con le sue improvvise impennate a gestire lui e la sua arte. Per questo si sentiva insoddisfatto e inquieto.
— Padre-Affonso-dice-messa-ora-altare-S.Bernardino — il giovane africano in portineria rispose automaticamente e non fece caso alla sua aria trafelata mista a profondo imbarazzo — fondo-destra-chiesa-prego…
[Misterioso è il cuore – finito di scrivere Novembre 2004]
Dieci anni lontano cambiano la vita profondamente, dicono. Ma quando rimisi piede nella mia piccola città tutto parve risvegliarsi in quell’istante: riscoprii i piccoli bar sul lungomare, i vecchi lidi balneari ancora uguali e solo un po’ più rovinati dalla salsedine e dal vento, ritrovai le stradine arroccate della città antica, il mio liceo… Un brivido mi percorse nell’attraversare il lungo viale alberato, nel varcare la soglia di quell’ingresso e lo stupore fu grande quando vidi che il vecchio bidello di allora era ancora al suo posto, forse non più tanto saldo sulle ginocchia, ma sempre con quel piglio autoritario che usava accoglierci ancora assonnati e un pochino svogliati la mattina.
— Pagani! Come mai dopo tanto tempo qui a scuola?
— Sono stata convocata in segreteria… qualche mese fa, a dire il vero, ma sono potuta rientrare solo ora…
— Ah, sì. è un’idea del nuovo segretario. I vostri vecchi compiti di italiano, prima di mandarli al macero… Ha scritto a tutti gli ex alunni per chiedere di passare a ritirarli, nel caso li voleste per ricordo. Ma temo sia passato troppo tempo, non so se i suoi ci saranno ancora!
— Il segretario? Posso parlare con lui?
— Magni è in ferie, siamo ad agosto Pagani, andiamo tutti in vacanza, in questo periodo!
— Magni?
— Stefano Magni, si ricorda? Il capoclasse della 5 C, classe 99…
Come potevo non ricordare? Troppe cose mi legavano a lui. Segretario scolastico. Non me lo sarei mai aspettato. E invece…
[La cena di classe – terminato nell’Agosto 2010]
Li voglio leggere: TUTTI! Con una menzione di merito per Aquanive.
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Beh, Laura, a disposizione!
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